Il fascino dell’azzurro, l’ebbrezza del mare, le spiagge sabbiose e le coste rocciose dai fondali di mille colori, hanno accompagnato la storia dell’Europa Meridionale e dell’Africa Settentrionale, ma soprattutto hanno contribuito a scriverla. Il Mar Mediterraneo, con le sue ricchezze e la sua vastità è stato, e continua ad essere, un importante snodo intercontinentale.
Navigato da popoli così diversi, dalla Grecia alla Spagna, dall’Egitto all’Italia, un continuo scambio di culture ha influenzato ognuno di questi paesi, rendendo il nostro mare (Mare Nostrum come lo chiamavano gli antichi Romani) palcoscenico della storia della civiltà occidentale. La Sicilia, per la sua posizione centrale e quindi di passaggio, è stata la terra di approdo per eccellenza. Le influenze linguistiche e culturali in generale hanno piantato profonde radici, tanto da essere arrivate fino ai giorni nostri. Dall’età antica, passando per quella medievale e moderna, fino ad arrivare all’età contemporanea ogni popolo e ogni dominazione hanno lasciato il segno.
Con la colonizzazione greca la Sicilia entra a far parte della storia, diventando, al pari della Magna Grecia, un importante centro di cultura (si pensi ad Archimede) e di arte, soprattutto nell’architettura religiosa. Città come Siracusa e Agrigento continuano a conservare i tesori di questo importante periodo storico. Successivamente, in epoca romana, l’isola fu sfruttata per il suo clima e il suo territorio, diventando il cosiddetto granaio di Roma.
Fu solo in epoca medievale che cominciò la tanto famosa e ancora diffusa, influenza delle popolazioni arabe, che con la loro edilizia e le loro proprietà linguistiche hanno lasciato il segno. Ancora oggi, molte parole del dialetto siciliano (o, se si vuole, dei dialetti dei vari comuni) appartengono alla lingua araba.
Influenze linguistiche tuttora ancora vive nel dialetto siciliano risalgono anche all’età moderna e furono dovute alla presenza di spagnoli e francesi.
La storia della Sicilia è lunga, appassionante e ricca di fascino. Ma è solo grazie allo splendido mare che la circonda, che quest’isola oggi può ritenersi la culla di un tesoro di inestimabile valore: una cultura a 360°, nata dalla collaborazione di popoli diversi tra loro nelle epoche e nelle tradizioni, ma tutti accomunati da un unico fattore: aver navigato sul Mediterraneo.
Ragusa Ibla – patrimonio dell’UNESCO
Ubicata nell’estremo meridione d’Italia, vivace e allegra, Ragusa è famosa grazie allo storico quartiere di IBLA, dichiarato patrimonio UNESCO, per la sua bellezza e la sua originalità.
La città fu ricostruita dopo il terremoto del 1693, lo stile architettonico è pertanto in prevalenza tardo-barocco, ma sono visibili ancora i segni delle dominazioni romane, bizantine, angioine e aragonesi.
Non rinunciate ad una gradevole passeggiata per i vicoli e per le stradine di Ragusa Ibla. Tra chiese maestose come il Duomo di San Giorgio, santo patrono della città, e palazzi storici, casette tipiche di pietra bianca e sentieri rocciosi che si inerpicano sulla collina che la ospita.
La cucina di tradizione iblea è una forte attrattiva per i turisti. Essa è ricca di gustose ricette, sia dolci che salate, molte delle quali a base di ricotta.
Castello di MIlazzo
Il complesso monumentale “Castello di Milazzo” (orari di apertura) è stato dato in gestione dal Demanio dello Stato, ramo Artistico – Storico – Archeologico ( ad eccezione del Duomo Antico di proprietà della Città), al Comune di Milazzo.
Ha una superficie di oltre 7 ettari e rappresenta la cittadella fortificata più grande di Sicilia; 12.070 mq sono coperti da fabbricati e si staglia sul paesaggio di Milazzo alla sommità dell’antico “Borgo” configurandosi come uno dei complessi fortificati più significativi d’Europa. Il complesso monumentale fonda le ragioni della sua collocazione sullo straordinario valore strategico della penisola di Milazzo che si protende verso le Isole Eolie, a presidio di una rada naturale che ha costituito da sempre uno dei porti più importanti della Sicilia. “La Cittadella Fortificata” rappresenta infatti uno dei pochi esempi di architettura militare in cui ancora esistono sistemi difensivi realizzati nel corso di circa 10 secoli da chi governava questo territorio. Occorre sottolineare che il sito non ha avuto sempre valenze esclusivamente militari, essendo stato, anche, parte di un borgo medioevale, nella zona compresa fra la Cinta Aragonese e quella Spagnola.
Dopo un breve periodo sotto la dominazione Angioina, subentrano gli Aragonesi; sotto Alfonso il Magnanimo il castello viene ristrutturato e alla fine del ’400 per volontà di Ferdinando il Cattolico, viene costruita la “Cinta aragonese”, che ingloba la struttura federiciana. Si ritiene che nei primi decenni del 1500 inizino i lavori per la costruzione della “Cinta spagnola”, struttura che include il vecchio abitato medievale che in quest’area si era sviluppato nel corso dei secoli e che è in parte visibile negli scavi all’interno. Tra il ‘600 e il ‘700, qui erano presenti vari edifici civili come il Palazzo dei Giurati situato di fronte al Duomo Vecchio.
Nel 1860 dopo la conquista di Garibaldi, l’esercito borbonico abbandona il presidio che aveva nel castello.
Dal 1880 al 1959 la struttura viene adibita a carcere. Dopo un lungo periodo di abbandono e incuria, tra il 1991 e il 2002, e tra il 2008 e il 2010, il complesso è stato oggetto di due importanti restauri.
Giardini Naxos, la seconda colonia greca in terra di Sicilia
Capo Taormina a Nord e Capo Schisò a Sud sono i confini naturali che abbracciano la spettacolare baia di Naxos.
II primo greco a sbarcare a Schisò, in prossimità dell’attuale porto turistico, fu Teocle nel 735 a.C. Narra il mito che Nettuno, dio del mare, infuriato per aver ricevuto in dono il fegato poco cotto di un sacrificato, sconquassò le onde del mare e colpì la fragile imbarcazione, causando il naufragio della nave e la morte di tutti i marinai.
Solo Teocle si salvò, il quale aggrappato ad un relitto, spinto dalle onde, approdò sulla spiaggia. Incantato dalla bellezza di quei luoghi, decise di stabilirsi in Sicilia. Fu così che arrivarono i primi coloni greci provenienti dalla omonima isola di Naxos nel mar Egeo.
In questo bellissimo litus (dal latino striscia di terra bagnata dal mare), tra miti e leggende, il Lido di Naxos è il migliore punto di partenza per visitare Giardini Naxos.
Palazzolo Acreide e il parco archeologico
E’ una grossa cittadina agricola al centro dell’altipiano omonimo racchiuso tra le profonde vallate dell’Anapo a nord-est e del Tellaro a sud-ovest. Sorta presso il luogo dell’antica Akrai, l’attuale città ebbe origine nei primi secoli del basso medioevo quando comparve col nome di «Placeolum» nella bolla di Papa Alessandro III nel 1169.
Fu sempre di dominio feudale. Semidistrutta dal terremoto del 1693, rinacque sulle rovine conservando in parte l’antica articolazione viaria medioevale con numerosi cortili plurifamiliari. La fisionomia settecentesca della cittadina è riscontrabile nelle notevoli manifestazioni di architettura barocca.
All’interno del parco archeologico, dominante la valle dell’Anapo si trova il Teatro Greco che risale al II sec. a.C. durante il regno di Ierone II.
Una stretta galleria dà la possibilità di collegare la cava del teatro al Bouleuterion. Questo edificio di modeste dimensioni era un luogo di raduno per le assemblee del senato acrense.
A ridosso del teatro si trovano i resti del Tempio di Afrodite. A Sud-Est le latomie dette dell’Intagliata e dell’Intagliatella, usate inizialmente come cave di pietra per la costruzione dell’antica Akrai, in seguito divennero luoghi di sepoltura. Sul pendio della città antica sorgono altre latomie conosciute come Templi ferali, luoghi di venerazione.
Ai piedi del colle una serie di bassorilievi scolpiti nel calcare documenta il culto degli acrensi nei confronti della dea Cibele o Magna Mater, riconoscibile per il timpano, il Modio e i leoni. I rilievi risalenti alla metà del III sec. a.C. scoperti anch’essi dal barone Judica (nel 1809)), sono 12 e nel gergo locale vengono denominati “Santoni”.
Scolpiti su una parete che si estende per circa 30 metri, sono di fattura rozza ma testimoni di valore storico e religioso. La necropoli della pineta occupa la sommità pianeggiante di detta contrada, ed è visibile dalla strada panoramica.
Bronte, la città “dell’oro verde”: il pistacchio
A nord-ovest del vulcano Etna, si trova la città più famosa al mondo per la sua produzione di pistacchio. La particolare posizione di Bronte, a metà tra il Parco dell’Etna ed il Parco dei Nebrodi, fa si che il territorio presenti delle caratteristiche uniche che armonizzate tra loro danno origine ad un frutto dal sapore eccezionale.
Qui si combinano elementi naturali quali la terra vulcanica e le temperature miti, che creano le condizioni ideali alla pratica delle antiche tecniche di coltura del pistacchio tramandate da generazioni di padre in figlio.
Il pistacchio è il prodotto tipico per eccellenza di questa città, ha un gusto raffinato senza eguali, riconosciuto a vello internazionale per la sua dolcezza, la sua delicatezza ed il suo aroma. Con più di tre mila ettari di colture specializzate nella produzione del pistacchio, Bronte non ha concorrenti al mondo!
Esiste anche una festa a tema per elogiare questo prezioso frutto: la sagra del pistacchio che si svolge nel mese di ottobre e che riporta a Bronte migliaia di persone.
II pistacchio è usato in cucina nella preparazione dei dolci, o nella farcitura dei formaggi, a volte lo ritroviamo cosparso sulla pasta asciutta, o in un nono gelato, nelle creme da spalmare o nel pesto.
La città di Bronte è rinomata anche per le sue chiese tra le quali la Chiesa Madre, S. Maria del Rosario, S. Giovanni, S. Vito, e i suoi monumenti come il Castello di Nelson, originariamente conosciuto come Abbazia di Santa Maria di Maniace.
Esso fu donato da Re Ferdinando di Borbone al Generale Nelson per l’apporto dato dalla marina inglese durante la guerra napoletana, occasione nella quale il generale fu investito del titolo di Duca di Bronte.
Caltagirone, la città della ceramica
Caltagirone è per antonomasia la città della ceramica e tutto rievoca questa grande arte! I palazzi storici, le vie, la Villa Comunale, la Scala di S. Maria del Monte, i balconi ed ogni angolo sono impreziositi dalle maioliche, dagli ornamenti e dalle opere in ceramica. II centro storico di Caltagirone si estende lungo due arterie principali: corso Vittorio Emanuele e via Roma.
Esse ospitano i palazzi ed i monumenti più belli della città tra cui: Palazzo Gravina, la Basilica di San Giacomo, Tondo Vecchio, Palazzo Ventimiglia, la Chiesa di S. Francesco d’Assisi, la Chiesa di S.Agata e tante altre bellezze del barocco siciliano.
La piazza del municipio è il punto di incrocio delle due strade principali e su di essa si affaccia il Palazzo Senatorio, attuale Teatro comunale e sede della Galleria Don Sturzo. A due passi sorge il Duomo di San Giuliano e adiacente ad esso si trova un curioso palazzo chiamato “la Corte Capitaniale”, costruito su un unico piano.
Simbolo per eccellenza della città è la scalinata di S. Maria del Monte, con 142 gradini in lava decorati da bellissime formelle di maiolica policroma, con disegni floreali e geometrici.
È tradizione illuminare a festa la scalinata a fine luglio in occasione della festa di S. Giacomo, mentre a maggio la stessa è infiorata con addobbi floreali. Passeggiando tra le vie di Caltagirone, non può mancare di visitare le botteghe artigianali che offrono i capolavori in ceramica e terracotta. Sono di terracotta altresì le statuine dei presepi di Caltagirone che rispecchiano la storia, il costume, i modi di essere e di sentire del tempo in cui sono state create.
Questa tradizione celebrata ogni anno, tra dicembre e gennaio, nella mostra Natale e Presepi, offre ai visitatori l’opportunità di ammirare oltre 30 presepi tra cui: il presepe biblico, il presepe animato, il presepe con statue a grandezza naturale, il presepe siciliano, il presepe realizzato con i mattoncini lego e quello con la stoffa.
Caltanissetta: la provincia con più castelli
La tangibilità delle dominazioni arabo-normanne che hanno contrassegnato la storia della Sicilia, possono essere rivissute, visitando “la provincia dei castelli” ossia Caltanissetta che, con cen 9 castelli dislocati in punti strategici a difesa del territorio, è la provincia che ne annovera il maggior numero.
Partendo da Sud, da Gela, incontrate il Castello di Federico II di Svevia, detto Castelluccio”, costruito su una collina di gesso a difesa della città. In direzione ovest, percorrete la Statale 115, passando per la bellissima località di Manfria, giungerete al Castello di Falconara, I’unico della provincia nissena che si affaccia sul mare.
Lasciando la costa, a circa 25 km sorge il Castello di Butera, nel centro abitato, anche se in origine faceva parte delle mura perimetrali.
Procedete sulla strada statale 190, sino a Mazzarino dove sorge l’imponente Castello detto U cannuni, per via della grande torre cilindrica che lo caratterizza, simile proprio ad un cannone. In contrada Salomone, nella stessa Mazzarino, sorgono i resti dell’altra fortezza del territorio: il Castello di Garsuliato.
II capoluogo, Caltanissetta, ospita i resti del Castello di Pietrarossa. II suo nome deriverebbe dal colore caratteristico dei mattoni di pietra con i quali furono rivestite le tre torri.
A Delia, su un colle di roccia calcarea si erge il “Castellaccio”, cosiddetto, poiché fu teatro di avvenimenti storici decisivi per la Sicilia, legati alla Guerra del Vespro, alla fine del XIII sec.
Tra i più affascinanti, c’è l’inespugnabile Castello di Mussomeli, che è incastonato nella roccia calcarea a circa 80 metri d’altezza.
Sulle rive del fiume Imera meridionale, quasi al confine con il territorio palermitano, sono visibili solo pochi resti del Castello di Resuttano. II maniero, di epoca araba, è noto per aver ospitato Federico II d’Aragona, nel corso del suo viaggio da Palermo a Catania.
Orecchio di Dionisio e Teatro Greco: l’antica Grecia a Siracusa
Recatevi nell’antica città di Siracusa per visitare il magnifico Teatro Greco incredibilmente pervenuto sino ai giorni nostri pur essendo stato edificato nel V secolo a.C., oltre 2.500 anni fa.
Ancora oggi il teatro ospita le più importanti rappresentazioni dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Le tragedie di Eschilo, Euripide e Sofocle sono solo alcuni dei capolavori della storia antica che rivivono nel palcoscenico naturale del Teatro Greco di Siracusa.
A breve distanza troverete il leggendario Orecchio di Dionisio: una grotta naturale scavata nella cava, alta 23 metri, la cui forma appuntita ricorda per l’appunto un orecchio. Secondo la leggenda pare fosse una prigione ai tempi del tiranno Dionisio.
La straordinaria acustica della grotta consente di sentire chiaramente persino le parole sussurrate sotto voce in fondo alla grotta! E per tale ragione che si scoprivano i contenuti delle conversazioni dei prigionieri che ignoravano di poter essere ascoltati addirittura fuori dalla grotta stessa. Provate anche voi!
Etna: il cuore pulsante della Sicilia
L’Etna (Mungibeddu) è un complesso vulcanico siciliano originatosi nel Quaternario ed ancora attivo; con le diverse eruzioni ha minacciato spesso le diverse comunità umane che nel tempo si sono insediate intorno ad esso.
E’ un vulcano attivo, spesso entra in eruzione iniziando in genere con un periodo di emissione di cenere vulcanica a cui fa seguito un’emissione di magma abbastanza fluido all’origine.
L’eruzione più lunga a memoria storica è quella del luglio 1614. Durò ben dieci anni e coprì 21 chilometri quadrati di superficie sul versante settentrionale del vulcano. Le colate ebbero origine a quota 2550 e presentarono la caratteristica particolare di ingrottarsi ed emergere poi molto più a valle fino alla quota di 975 m s.l.m., al di sopra comunque dei centri abitati. Lo svuotamento dei condotti di ingrottamento originò tutta una serie di grotte laviche, oggi visitabili, come la Grotta del Gelo e la Grotta dei Lamponi.
Nel 1669 avvenne l’eruzione più conosciuta e distruttiva, che distrusse Catania. La lava arrivò al Castello Ursino, che sorgeva su uno sperone roccioso allungato sul mare, e superandolo creò oltre un chilometro di nuova terraferma. L’eruzione fu annunciata da un fortissimo boato e da un terremoto che distrusse il paese di Nicolosi e danneggiò Trecastagni, Pedara, Mascalucia e Gravina. Poi si aprì una enorme fenditura a partire dalla zona sommitale e, sopra Nicolosi, si iniziò l’emissione di un’enorme quantità di lava. Il gigantesco fronte lavico avanzò inesorabilmente seppellendo diversi comuni dirigendosi verso il mare.
Nel 1928, ai primi di novembre, iniziò l’eruzione più distruttiva del XX secolo. Essa portò, in pochi giorni, alla distruzione della cittadina di Mascali. La colata fuoriuscì da diverse bocche laterali sul versante orientale del vulcano e minacciò anche Sant’Alfio e Nunziata.
L’eruzione del 5 aprile del 1971 ebbe inizio a quota 3050 da una voragine dalla quale l’emissione di prodotti piroclastici formò l’attuale cono sub-terminale di Sud-est. Vennero distrutti l’osservatorio Vulcanologico e la Funivia dell’Etna.
Il 1983 è da ricordare oltre che per la durata dell’eruzione, 131 giorni, anche per il primo tentativo al mondo di deviazione per mezzo di esplosivo della colata lavica. L’eruzione si presentava abbastanza imprevedibile, con numerosi ingrottamenti ed emersioni di lava fluida a valle, che fecero temere per i centri abitati di Ragalna, Belpasso e Nicolosi.
Il 14 dicembre del 1991 ebbe inizio la più lunga eruzione del XX secolo (durata 473 giorni), con l’apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di Sud-est, alle quote da 3100 m a 2400 m s.l.m. in direzione della Valle del Bove. L’esteso campo lavico ricoprì la zona detta del Trifoglietto e si diresse verso il Salto della Giumenta, che superò il 25 dicembre 1991 dirigendosi verso la Val Calanna. La situazione fu giudicata pericolosa per la città di Zafferana Etnea e venne messa in opera, una strategia di contenimento concertata tra la Protezione civile e il Genio dell’Esercito. In venti giorni venne eretto un argine di venti metri d’altezza che, per due mesi, resse alla spinta del fronte lavico.
La tecnica dell’erezione di barriere in terra per mezzo di lavoro ininterrotto di grandi ruspe ed escavatori a cucchiaio in seguito si rivelò efficace nel tentativo di salvataggio del rifugio Sapienza nel corso dell’eruzione 2001, ed è stata oggetto di studio da parte di équipes internazionali, tra cui tecnici giapponesi. Tutto si rivelò efficace nel rallentare il flusso lavico guadagnando tempo ma ancora una volta non risolutivo in caso di persistenza dell’evento eruttivo.
Furono chiamati gli incursori della Marina che operarono nel canale principale, a quota 2200 m, con cariche esplosive al plastico (C4) e speciali cariche esplosive cave per deviare il flusso di lava ed inviarla così nella valle del Bove riportando indietro di circa sei mesi la posizione del fronte lavico. L’operazione riuscì perfettamente, utilizzando una carica di C4 pari a 7 tonnellate e 30 cariche cave, il tutto fatto esplodere in rapidissima successione.
Il Parco dell’Etna è stato il primo ad essere istituito in Sicilia nel marzo del 1987.
Per proteggere questo ambiente naturale unico e lo straordinario paesaggio circostante, marcato dalla presenza dell’uomo, il Parco dell’Etna, è stato diviso in quattro zone. Nella zona “A”, 19.000 ettari, quasi tutti di proprietà pubblica, non ci sono insediamenti umani. E’ l’area dei grandi spazi incontaminati, regno dei grandi rapaci tra cui l’aquila reale.
La zona “B”, 26.000 ettari, è formata in parte da piccoli appezzamenti agricoli privati ed è contrassegnata da splendidi esempi di antiche case contadine, frugali ricoveri per animali, palmenti, austere case padronali, segno di una antica presenza umana che continua tutt’ora. Oltre alle zone di Parco A e B, c’è un’area di pre-parco nelle zone “C” e “D”: 14.000 ettari, per consentire anche eventuali insediamenti turistici sempre nel rispetto della salvaguardia del paesaggio e della natura.
Nebrodi, la vera natura siciliana
È l’area protetta più vasta dell’isola! 86.000 ettari di meravigliosa natura incontaminata. Ben 70 km di catena montuosa e boschi abeschi che rappresentano il 50% della vegetazione siciliana.
Si trova a Nord-Est, tra il mar Tirreno e l’Etna comprendendo un territorio molto variegato, ancora tutto da scoprire ricco di laghi, sorgenti, e boschi. Monte Soro, alto 1847 s.l.m., è la cima più alta dei Nebrodi.
Sulle sue pendici nord-orientali si estende il lago Maulazzo, di circa 5 ettari, incastonato in un bellissimo bosco di faggi. II Lago Tre Arie e il Lago Biviere, sono posti a quasi 1.500 metri s.l.m. e vantano un gran popolamento vegetale e animale. Sono infatti meta di tantissime varietà di uccelli acquatici e di passaggio durante la stagione delle migrazioni. Sarete circondati da paesaggi insoliti, che vi stupiranno incantandovi. II Parco Regionale dei Nebrodi è meta di chi ama profondamente rallentare i ritmi della vita e perdersi tra i sentieri che la natura offre.
Se vi spostate a Maniace, dopo una visita alla Ducea di Nelson, proseguite per 7 km fino a Portella Segheria, per accedere a piedi, dal cancello della forestale, al Sentiero delle Sorgenti. Una delle più spettacolari è la Sorgente Virgilio a quota 1.300 metri, mentre quella dal nome più inquietante è la Sorgente Valle dell’Uomo Morto.
Una grande testimonianza dell’era mesozoica della Terra sono Le Rocche del Crasto: una vasta formazione rocciosa di rara bellezza costituita da rocce cristalline grigie e lucenti e da calcari dolomitici bianchi e rosa, spesso con sfumature verdi e rosse, situate a ridosso dei centri abitati di Longi, San Marco d’Alunzio e Alcara Li Fusi.
Durante la vostra escursione è possibile che vi facciano compagnia lepri, istrici, volpi, donnole, aquile, grifoni, cavalli, mucche e caprette al pascolo! II panorama che si ammira dai rilievi e dai laghi del Parco dei Nebrodi è spettacolare e non ha eguali al mondo.
La Valle dei Templi
L’UNESCO, nel 1997, ha deciso di inserire l’area archeologica di Agrigento nel prestigioso elenco dei siti Patrimonio Mondiale Dell’Umanità perché: Agrigento rappresenta, ancora oggi, la cultura greca. Storicamente Akragas Agrigentum, questo il nome dell’Agrigento di epoca greca, si è conservata in ottimo stato fino ai tempi nostri, come dimostra la Valle dei Templi.
I Templi di quest’area, sorgono tra campagne di mandorli e fiori, sono di stile dorico ed edificati a partire dal quinto secolo avanti Cristo con tufo calcareo trovato in loco. Ad essere meglio conservato (praticamente appare integro) è il Tempio della Concordia che deve il suo nome ad una iscrizione latina trovata nei pressi del Tempio stesso. Affascinanti anche i Templi di Eracle (Ercole) che è il più antico e quello di Zeus Olimpico (Giove) con i suoi telamoni, enormi statue dalle sembianze umane. Vi sono poi il Tempio di Giunone, di Castore e Polluce, di Vulcano e di Esculapio. I templi sono tutti rivolti verso Est in modo che la statua raffigurante la divinità all’interno del Tempio venisse irradiata dal sole che sorge la mattina. A questi va aggiunta la Tomba di Terone, eretta per ricordare i caduti della seconda guerra punica.
Il tesoro della Zisa a Palermo
Se andate a Palermo non perdetevi due bellissime strutture arabo-normanne: il castello della Zisa e la Cuba. Certo, lo splendore non è quello degli anni in cui sorsero, ma con un po’ di immaginazione tutto sembra più bello.
La storia dei musulmani in Sicilia ebbe ufficialmente inizio nell?827 con la caduta dei bizantini e la conquista di Mazara (anche se già, qualche anno prima, avevano fatto irruzione a Lampedusa). Con l’ingresso in Sicilia del mio bellissimo Conte Ruggero (ho un debole per lui, lo ammetto), nel 1091 i saraceni furono scacciati. Gli arabi in realtà continuarono ad affiancare i normanni e poi gli svevi fino al XIII secolo, ci fu un rapporto di collaborazione tra le due popolazioni, anzi, proprio in quel periodo, l’arte, le scienze e la letteratura sbocciarono nelle corti normanne. Durante il periodo saraceno sorsero un sacco di leggende e molte di queste ve le racconterò.
Oggi si parla del castello della Zisa e dei suoi diavoletti.
La leggenda nasce in Libano, quando il figlio del sultano, Azel Comel, un uomo bellissimo e di grande fascino, più bello del sole, con gli occhi grandi, profondi e neri che aveva la virtù di ammaliare tutte le donne col suo sguardo, si innamorò di una bellissima ragazza, figlia dell’Emiro, di nome El-Aziz. Azel Comel volle subito prendere in sposa El-Aziz, ma il sultano si oppose alle nozze. A quel punto Azel Comel si prese il diritto di impossessarsi dei tesori del padre composti da gemme preziosissime e tanto oro, e salpò in segreto su una nave assieme a El-Aziz. Viaggiarono a lungo fino a quando non arrivarono a Palermo dove l’aria profumava d’amore, di fiori e si udivano dolci canti. Fu qui che Azel Comel fece arrivare da tutti i paesi arabi e siciliani i più bravi operai e artisti che avrebbero costruito il castello per El Aziz. Nei sotterranei di questo grande palazzo nascosero il tesoro del sultano e fecero un incantesimo per fare in modo che non venisse mai trovato. Un giorno un uccello viaggiatore fece cadere dal becco un biglietto che arrivò sulla testa di El-Aziz dove vi era scritto che la madre si stava suicidando per la pena che la figlia le aveva dato andandosene dalla Libia. Letto il messaggio El Aziz fu colta dal dolore e volle raggiungere la madre morta nel regno degli inferi. Azel Comel, vedendo la moglie morta fu preso da un attacco di follia. Passò le notti ed i giorni correndo per mari e per monti, affamato e pieno di collera, straziato dal dolore, fino a quando il mare, buono e generoso, impietosito dall’accaduto, gli diede una dolce morte. Guglielmo I (il malo) si impossessò immediatamente del castello e gli diede il nome della bella fanciulla El Aziz (profumo di fiore): la Zisa. Il castello fu eretto direttamente da Guglielmo I nel 1175 e che nessuno vi poteva vivere prima perché non esisteva altro che terra. Quando si parla di leggende, di amori struggenti e di sogni non badiamo alle date.
E che fine ha fatto il famigerato tesoro???? E’ ancora lì, nessuno è mai riuscito a prenderlo.
I custodi pare siano dei diavoli che impediscono ai Cristiani di venirne in possesso. La leggenda dice che chi va a guardarli il 25 marzo, giorno dell’Annunziata, e li fissa a lungo vede che questi diavoli si muovono la coda, storcono la bocca; e nessuno è capace di contare il loro esatto numero. Colui che scoprirà l’esatto numero troverà il tesoro.
Alla scoperta di Pantelleria
Centinaia di migliaia di anni fa la grande esplosione nel cuore del Mediterraneo fa emergere la sommità di un vulcano sottomarino. Affiora così, con violenza, con prepotenza, Pantelleria, isola bruna e di fuoco, nata dal mare, dal magma, dalla lava incandescente. Le successive eruzioni vulcaniche ed i fenomeni di implosione, i crolli della lava e delle sue stesse costruzioni, i cosiddetti “collassi calderici”, hanno determinato l’aspetto attuale dell’isola ricca di colline e montagne formatesi da crateri minori – cuddie- e che, talvolta, conservano l’aspetto di bocche vulcaniche come il Monte Gibele, cuddia Mida, cuddia Rossa, cuddia Bruciata.
Le eruzioni. Seppure le ultime eruzioni, documentate dalla cronaca dell’epoca, risalgono al 1831 e al 1891, ancora oggi nell’isola il vulcano fa sentire la sua presenza. Continuano infatti i fenomeni vulcanici secondari su tutto il territorio: le fumarole ovvero getti di vapore acqueo che raggiunge temperature elevatissime, visibili sulle pendici della Montagna Grande, sulle rive del Lago. La più importante è la cosiddetta Favara Grande utilizzata dagli isolani come fonte di acqua per abbeverare il bestiame. Le fumarole all’interno di grotte chiamate stufe sono considerate vere e proprie saune come il “Bagno asciutto” a Sibà o la stufa di Khazèn. Ed ancora le sorgenti di acque termali calde che si immettono nel mare in diversi punti della costa: nella Grotta di Satana, a Scauri, a Gadir, nella Cala di Nicà e lungo le rive del bellissimo Lago di Venere le cui acque alimentate da sorgenti sotterranee sono ricche di soda. Il lago di Venere o Bagno dell’Acqua, con i suoi fanghi ricchi di sostanze minerali, è una vasta depressione di forma ovale -l’asse maggiore è di circa 600 metri- ed offre uno dei panorami più affascinanti dell’isola soprattutto se visto dall’alto, da Bugéber, la contrada che sovrasta il lago dal lato sud.
La vegetazione. Pantelleria, nera di pietra lavica e ossidiana, eppure isola verde per la ricca vegetazione. I boschi incredibili della Montagna Grande (800 mt.): pini, querce ed alberi ad alto fusto che raggiungono anche oltre i sei metri di altezza in cima alla montagna. La macchia mediterranea, presente in tutta l’isola, si alterna all’olivo selvatico, al mirtillo, al rosmarino, ai fichi d’india e alla grande varietà di fiori che, in primavera ed in autunno, vestono l’isola dei colori più vivaci e brillanti. E’ difficile pensare a questa terra così sorprendente che, insieme alle sue coste infuocate per il sole ed il clima africano offre, a breve distanza, la frescura dei boschi e paesaggi che si direbbero alpini, sentieri di montagna che si addentrano nel fitto intreccio di alberi e piante dove, nella stagione giusta, ci si può anche divertire a raccogliere diversi tipi di funghi. Isola dalla verde campagna, isola di contadini. Gli abitanti di Pantelleria guardano alla terra piuttosto che al mare ed alla terra affidano le loro speranze; la coltivano con il sistema del terrazzamento delimitando i terreni coltivati a vigneti ed a cappereti con muretti di pietra a secco. La più famosa uva che si coltiva è lo Zibibbo da cui si produce l’uva passa, vini di vario tipo – bianchi e rossi – e, soprattutto, il pregiato Moscato Passito oggi tutelato dalla Denominazione di Origine Controllata. Quanto alla coltivazione del cappero, quello di Pantelleria è ritenuto dagli esperti di qualità superiore se non addirittura il migliore del mondo. E che spettacolo poi, specie all’alba, un campo di capperi fiorito che impregna l’aria del suo profumo forte e penetrante. E nella campagna, nelle graziose contrade dell’interno dai suggestivi nomi di origine araba che evocano atmosfere africane: Khaddiuggia, Margana, Mursia, Satana, Nikà, Rekhali, Muègen, Tracino, Khamma, Gadir, Kharuia ed altre ancora, qui, i contadini di Pantelleria hanno costruito la loro casa, il Dammuso.
Usanze e tradizioni. Tipica costruzione isolana il dammuso ha pianta quadrata o rettangolare con pareti fatte di pietra lavica a secco e il tetto a cupola reso impermeabile e imbiancato, oggi, con la calce. Le cupole sono tante quante sono le stanze che compongono il dammuso. All’interno i tetti sono a volta, a crociera o reale, e la struttura tipica abitativa è costituita dalla sala centrale, la camera da letto o alcova e da un camerino. I pavimenti nei dammusi più antichi sono in mattoni di terracotta o in maiolica policroma decorata a mano. La funzione del tetto a cupola è soprattutto quella di far sì che le acque piovane vengano incanalate e direzionate per raccogliersi infine nella cisterna che di solito è scavata nel sottosuolo sotto la terrazza (passiaturi) di accesso al dammuso. I dammusi con le loro cupole di un bianco accecante contribuiscono a rendere singolare e unico il paesaggio pantesco. Spesso capita di vedere nelle vicinanze del dammuso una sorta di torre, bassa, circolare, costruita con pietra a secco, dalla cui parte alta si intravede appena la fronda di uno o più alberi. Mai si direbbe di essere davanti ad un giardino. Eppure è così. II giardino pantesco è protetto da questo muro che difende dai venti gli alberi da frutta, aranci, limoni, e che racchiude un piccolo paradiso di colori e profumi come un tesoro in uno scrigno.
L’isola e le sue meraviglie. Pantelleria, isola azzurra, dal mare splendido e trasparente che si appropria di tutte le sfumature e di tutte le gradazioni del blu, dalla tonalità più chiara e cristallina a quella più intensa e profonda. Ovunque lungo le coste frastagliate e rocciose, basse, scoscese o altissime, disegnate dal capriccio della lava che si è solidificata sulle rive del mare, si osservi lo straordinario contrasto di colori: azzurro, nero, verde, bianco. Prendendo il largo dal porto di Pantelleria centro e dirigendosi verso destra si giunge al Bue Marino con rive piatte ed accessibili da un lato e dall’altro rive alte a picco sul mare. Si prosegue, superate Punta Khariuscia e Cala Campobello, verso la bellissima Cala Cinque Denti, a ridosso dai venti di Scirocco così chiamata per la sua particolare costa dentellata, per scorgere infine il Faro di Punta Spadillo. Dopo la deliziosa Cala Gadir, Punta Tracino ed il Faraglione dividono Cala Tramontana da Cala Levante. Da qui si gode il sorprendente panorama di Punta dell’Arco altrimenti detta Arca dell’Elefante poiché la roccia che si protende verso il mare formando un arco richiama la testa di un elefante che affonda nell’acqua la sua proboscide stagliandosi, enorme e nera, sullo sfondo azzurro del cielo e del mare, percossa, spesso, dalla spuma bianca delle onde. La zona chiamata “Dietro Isola” è di una bellezza emozionante: il Faraglione detto il “Ficodindia” perché nella sua parte alta ancora vegetano piante di ficodindia. Balata dei Turchi, dove i pirati ed i predoni del mare erano soliti sbarcare, le rocce altissime -fino a circa 280 mt.- a picco sul mare dell’altura di Salta la Vecchia. Risalendo verso il porto di Pantelleria-centro si incontra l’insenatura di Nicà, Scauri con il suo porto, Punta Tre Pietre, Punta Fram dove le brune rocce laviche assumono le forme più strane tanto da sembrare sculture frutto di fantasie di artista.
La storia. Pantelleria, isola antica. La sua terra ha conosciuto le orme dei Fenici, dei Romani, dei Vandali, dei Bizantini, degli Arabi, dei Normanni cui si deve la costruzione del Castello detto “Barbaca¬ne”, simbolo dell’isola, che si affaccia sul porto, edificato probabilmente su una fortificazione bizantina, e successivamente ampliato e modificato dagli Spagnoli nel XVI secolo. II primo popolo ad abitare Pantelleria fu il cosiddetto popolo dei Sesi il cui insediamento nell’isola risale a circa 5.000 anni fa in epoca neolitica. L’origine e la provenienza del popolo dei neolitici è oscura, certo è che si stanziarono nella zona fra le località di Mursia e Cimillia come rivelano gli importanti resti archeologici dell’agglomerato urbano -la città dei vivi- e della necropoli dei Sesi -la città dei morti-. Del villaggio neolitico restano le tracce delle abitazioni o capanne all’interno delle quali sono state ritrovati ceramiche, vasellame e resti di utensili ed oggetti realizzati in ossidiana, la nera pietra vulcanica. Una imponente muraglia, il cosiddetto Muro Alto costruito con grossi blocchi di pietra, lungo circa 210 metri ed alto 8, di cui sono visibili i resti, separava il villaggio dalla Città dei Morti. I Sesi sono monumenti funerari di forma ellittica con numerosi ingressi e strutturati all’interno in lunghi corridoi o gallerie e celle di diverse dimensioni. II più importante ed il più imponente per le dimensioni è il Sese Grande o altrimenti detto “Sese del Re”, certamente destinato alla famiglia dominante e più potente del villaggio. Pantelleria, isola dal paesaggio dolce e selvaggio, aspro ed invitante, isola ricca di contrasti, génerosa di forti emozioni, solitaria e seducente.
Erice, dove il tempo sembra si sia fermato
Erice si erge sulla sommità del Monte San Giuliano (m. 751 s.l.m.) e domina dall’alto Trapani, il panoramico capoluogo. La si vuole inizialmente popolata dagli Elimi (circa X secolo a. C.), addirittura fondata dal mitico Erice, figlio di Venere e di Bute, che divenne re di quella antica popolazione del monte che si stanziò sino alla vicina Segesta. A tale periodo risalirebbero le ciclopiche mura forse elimo puniche. La posizione strategica è stata una delle principali cause dell’appetibilità del sito, che ha determinato sin dall’antichità invasioni e distruzioni nell’avvicendarsi dei popoli: dai Fenici, ai Greci, ai Romani. II culto di Astarte, vivo fin dalla preistoria sul monte Erice, lascia intendere l’influenza orientale che ha toccato questa terra, influenza arrivata con le genti provenienti dall’Asia Minore. La dea della fecondità, dell’amore e della bellezza, identificata poi con la Toruc dei Fenici, con la greca Afrodite e quindi con la romana Venere Ericina, rende ancora magici i luoghi frequentati dai suoi devoti. Celebre è stato il recinto del tempio ancor oggi esistente e che è divenuto più tardi, in età normanna, sede del governatore Bajulo: non a caso il bellissimo giardino sito sulla vetta è detto “del Balio”. Sotto la dominazione normanna le rovine del tempio vengono fortificate e sul luogo sorge ciò che possiamo ammirare ancora oggi il Castello detto di Venere, adiacente ai giardini, dominati dalle torri medievali. Gli Elimi costruirono il tempio ma non abitarono il monte. II Tempio fungeva da guida ai naviganti sia per la posizione che domina il mare e la vallata verso Trapani sia per il fuoco che, ardendo sempre nel luogo consacrato alla dea, era un punto di riferimento per tutti coloro che andavano per mare, impegnati a solcare le acque dell’arcipelago delle Egadi, faro di luce mistica e guida nelle avversità del tempo. La dea, ritenuta protettrice dei naviganti era venerata da tutti i popoli del Mediterraneo. Le anagogie e catagogie, le feste propiziatorie durante le quali la dea e le sue sacerdotesse venivano celebrate, si protraggono sino al XV secolo d. C., allorchè la Chiesa opera una “trasposizione” cultuale: l’immagine di Maria viene sostituita a quella della Dea che continua a mantenere le stesse sembianze e la stessa data di celebrazione del rito. Distrutta nel 260 a. C. per mano dei Cartaginesi che deportano gli abitanti a Trapani, Erice diviene sede di presidio romano sino a quando sotto altro nome Gebel Hamed, riappare sotto gli Arabi. Sarà sotto i Normanni che andrà a delinearsi quell’assetto urbano che le conferirà l’aspetto magico che Erice mantiene tuttora. Accanto alle Mura Ciclopiche, che vanno a proteggere il lato nord occidentale, ad Erice sorgono il Castello normanno di Venere, la Chiesa madre del 1314 dedicata alla Vergine Assunta, che conserva ecletticamente le forme gotiche originarie unitamente alla torre campanaria distaccata, nata come torre di vedetta, con tipiche bifore trecentesche, ed il portico in antes su quattro arcate ogivali del secolo XV. Le dominazioni che si susseguiranno nei secoli successivi la arricchiranno di case, chiese e palazzi, che imprimeranno nuova linfa alla cittadina. L’impianto urbanistico medievale giunto a noi pressoché integro, rivela le esigenze di una popolazione che doveva vivere su un territorio ristretto, a forma triangolare e con dislivelli notevoli. Ma ciò non ha privato Erice di quelle belle architetture che le incorniciano il profilo, delle incantevoli vie tortuose e strette, pavimentate a riquadri come i cortiletti fioriti, raggiungibili attraverso archivolti. Un insieme armonizzato dall’unicità cromatica della pietra locale. Le porte di accesso alla città, Porta Trapani, Porta Spada e Porta Carmine ancora oggi sembrano assolvere al ruolo di sentinelle all’accesso della città. Erice del suo passato non preserva soltanto l’impianto urbano e le architetture intra moenia. II suo territorio conserva le strutture architettoniche produttive agricole che hanno segnato economie forti, i bagli. Accanto a questo patrimonio fatto di storia, di architettura, di siti archeologici Erice preserva tradizioni venute da lontano. Un sapere tutto femminile, esitato a telaio, con i motivi tipici a losanga, sono i tappeti, che si differenziano da quelli realizzati in altri centri dell’Isola. Ieri fruiti per le necessità della terra, oggi apprezzati come souvenir pratici e allegri. I bei colori di questi prodotti artigianali gareggiano con le cromie dei decori della ceramica locale, che trae dalle antiche fornaci e botteghe la maestria di fare della creta opera d’arte. Tra i beni culturali di particolare rilievo che possiamo scorgere su questa vetta ammirevoli sono: il Museo Cordici; il Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana voluto dallo scienziato Antonino Zichichi; la Chiesa Madre, nel cui interno oggi un ibrido stile gotico dovuto ai rifacimenti del 1865, si conservano testimonianze artigianali d’arte pittorica e scultorea attribuite a noti artisti siciliani come il Laurana o il Mancino. Ma ancora oltre sessanta le antiche e pregevoli chiese, tra queste quelle dedicate a San Giuliano, San Giovanni Battista, San Martino, San Orsola o Addolorata, sede dei gruppi dei “Misteri”, San Cataldo e la Chiesa del Carmine adiacente al Palazzo Militari, il già detto Castello di Venere che conserva testimonianze, risalenti al VII – V secolo a. C., del tempio di culto sul quale sorge si trova su un’alta rupe (si accedeva per mezzo di un ponte levatoio in quanto i normanni lo avevano reso inespugnabile). Rovine ritenute della costruzione templare sono alcuni rocchi di colonne e frammenti di cornice d’epoca romana oltre a varie decorazioni musive di muri e pavimenti. Tutto intorno si estendono i Giardini del Balio, dal nome del governatore normanno, Bajulo, che risiedeva nel castello adiacente. Infine le Torri Medievali, costituivano l’avamposto del Castello di Venere collegate da poderose cortine murarie, ricostruite nella metà del secolo scorso per volontà del Conte Pepoli, cui si deve anche l’edificazione della Torretta Pepoli, una manieristica costruzione in stile moresco. Tra le iniziative che ormai si sono consolidate, divenute appuntamento annuale, si ricorda la Settimana dedicata alla Musica Medievale e Rinascimentale.
Ancora oggi la fede gioca un ruolo di primo piano nella vita della comunità ericina. Puntualmente, infatti, durante la settimana santa, un antico rito torna a fare delle strade di Erice percorso di dolore con la mistica processione dei Misteri pasquali la cui origine si perde nella notte dei tempi. Un’atmosfera di intenso coinvolgimento emotivo nella passione di Cristo riproposta con l’intensità di un sentire che è fede profonda, è partecipazione all’evento vissuto con l’ansia che ci regalano i tempi che ci son dati da vivere.
Dolce tipico: Genovese alla crema, dolce di pastafrolla con zucchero a velo sulla parte superiore (possibilità di gustare anche la variante con ricotta) e “Mustaccioli”, antichi biscotti fatti nei conventi di clausura.
Guglielmo il buono e il Duomo di Monreale
Anticamente si diceva Chi va a Palermo e non va a Monreale, ci va asino e torna animale. Non so bene di quale animale si possa trattare, ma, per evitare problemi, io una capatina a Monreale, “per il si o per il no”, la farei dopo aver visitato Palermo. Vediamo un pò che cosa ci dice la storia…
Morto Ruggero II, il regno passò a Guglielmo I detto il malo. Alla morte di Guglielmo I succedette il figlio Guglielmo II detto il buono. A lui si deve la costruzione di quella che, secondo me, è una delle cattedrali più belle al mondo, quella di Monreale. La leggenda narra che Guglielmo il buono si trovava a Monreale per una battuta di caccia, ad un certo punto gli venne un grande sonno e si addormentò sotto un albero di carrubo. Mentre dormiva gli apparve la Madonna che gli diceva che sotto l’albero in cui si trovava era nascosto un grande tesoro. Lo invitò a scavare e a fabbricare proprio in quel luogo un tempio a lei dedicato. La Madonna scomparve e Guglielmo si svegliò. Immediatamente disse ai suoi sudditi di sradicare il carrubo e di scavare finché non avessero trovato qualcosa. Dopo aver fatto una buca enorme il Re trovò un tesoro di dimensioni spropositate e subito chiamò i migliori ingegneri, architetti, mosaicisti, muratori, carpentieri, marmisti, ebanisti e chi più ne ha più ne metta, per poter costruire il Duomo dedicato alla Madonna, una vera meraviglia!
Ruggero II e il duomo di Cefalù
Nell’agosto del 1129, Ruggero II partì da Salerno per ritornare in Sicilia. Ad un tratto, però, una nebbiolina iniziò a scendere dal cielo. La nebbia pian piano si fece sempre più fitta fino a quando il cielo non diventò pieno di nuvoloni e si alzò una tempesta. Il Re e l’equipaggio erano terrorizzati, non avevano mai visto qualcosa di simile. L’acqua entrava da tutte le parti, l’interno della nave era quasi distrutto. Il Re pregava chiedendo al Signore di salvarlo dalla burrasca. Pregò tanto. La nave, anche se la tempesta non permetteva alcun movimento, continuava ad andare avanti come se qualcuno la guidasse e la spingesse per poterla salvare. Come una scena da film, nel buio della notte apparve una luce, era il Signore che disse: “Non temere, io sarò con te”. Ruggero promise al Signore che nel posto in cui sarebbero approdati avrebbe fatto sorgere un tempio alla sua gloria. A quel punto cadde in un sonno profondo. La mattina si risvegliò sentendo le urla di esultazione dell’equipaggio. La nave aveva gettato le ancore a Cefalù. L’anno successivo Ruggero fece ergere una cattedrale, come promesso al Signore (in realtà iniziarono nel 1131, due anni dopo, ma questo a noi non interessa, in quanto le leggende hanno sempre ragione).
Ma parliamo un pò di storia della Sicilia.
Ruggero II fu un grande re. Fece del regno di Sicilia uno degli Stati d’Europa più potenti e meglio ordinati. Nel 1129 creò il primo parlamento della storia. L’Inghilterra lo ebbe solo nel 1264. Si ebbe il primo Stato “burocratico”, vale a dire basato su funzionari e non su una organizzazione feudale (vassalli, valvassori e valvassini). Si ebbe il primo stato “laico”, indipendente dalla chiesa di Roma e soprattutto si continuò, come nel periodo arabo, ad applicare uno spirito di tolleranza religiosa e civile che nel resto d’Europa sarà riconosciuta solo nel 1598 (cioè ben quattro secoli dopo) con l’editto di Nantes di Enrico IV di Francia (anche se già qualche decennio prima con Caterina de’ Medici, con l’editto di Gennaio, si era permesso ai protestanti la libertà di culto)
Noto, la città del barocco
Cittadina posta sul declivio di un colle in vista di una valle che si estende fino allo Jonio. La zona dove sorge Noto fu sede di antichissimi insediamenti umani. Sull’origine dell’antica Neetum si hanno poche fonti. fu sotto l’influenza di Siracusa nel V secolo a.C. In epoca romana, fu città di diritto latino. Con la caduta dell’impero Romano d’Occidente subì le invasioni successive dei barbari, dei bizantini e degli arabi, dai quali fu chiamata Val di Noto, nome che mantenne esteso poi a tutta la valle, fino agli inizi del secolo XIX. La nuova città sorse nel 1703, dopo che la vecchia Noto era stata distrutta dal terremoto del 1693. Si sviluppò assai rapidamente in virtù dell’intensa vita dell’economia agricola della zona. II progetto della nuova città, fornito dall’erudito GB. Landolina Salonia, fu realizzato con visione organica dagli architetti R. Gagliardi, A. Italia, GB. Giannola, G. Formenti ed altri, sì che oggi la città è un concreto esempio degli ideali urbanistico-architettonici della cultura settecentesca siciliana. A variare il meditato schema concorrono gli scenografici complessi edilizi settecenteschi fra i più suggestivi dell’isola e le numerose gradinate e stradine di raccordo dei diversi dislivelli. II tufo in cui tutta la città è tagliata, caldo e chiaroscurale, è ulteriore elemento di fusione del paesaggio urbano.
MONUMENTI
I resti del castello del XIII secolo. La Chiesa di S. Domenico, del 1727 circa, edificata quasi sicuramente su progetto di IR. Gagliardi. Nei pressi è l’ex Convento dei Domenicani con grandioso portale in bugnato del 1727. L’ex convento è oggi sede della Biblioteca Comunale ricca di 50.000 volumi. La Chiesa e il collegio dei Gesuiti sempre dei Gagliardi. La Chiesa del Carmine anch’essa progettata dal Gagliardi, così come la Chiesa di S. Maria dell’Arco e la Chiesa di S. Chiara, che possiede una Madonna di A. Gagini. La Chiesa di S. Francesco (1745) cha compone col lato posteriore del complesso del SS Salvatore un bellissimo scenario di architettura settecentesca. Il Monastero (1706), ora seminario. Il Duomo finito nel 1770 ho subito il grave crollo della cupola il 13 marzo l996 e da anni sono iniziati i lavori di ricostruzione e di recupero. A fianco è l’ottocentesco Palazzo Vescovile, di fronte è il Palazzo Comunale, già Ducezio, del 1746. Lo settecentesca Chiesa di S. Michele conserva all’interno un’acquasantiera del secolo XV e una scultura gaginesca. Tra i palazzi sono degni di rilievo: il Palazzo Nicolaci-Villadorata (1737¬-1760) la Casa dei Crociferi (1730), il Palazzo Astuto, i! Palazzo Canicarao e il Palazzo Landolina. A Noto Alta vi è la Chiesa dei SS. Crocifisso, della prima metà de! ’70O’ che conserva all’interno una statua della Madonna della Neve di F. Laurana (1471).